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In Africa e Russia il futuro dell’eolico

eolico-300x181Mentre nei mercati sviluppati la crescita dell’eolico sembra essersi fermata, nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo l’energia del vento continua a registrare un notevole successo.

È quanto sostiene una recente ricerca condotta dalla Navigant Research, secondo cui nel 2023 le installazioni eoliche in Africa ed ex Unione Sovietica raggiungeranno i 3350 MW.

A quanto si legge nel rapporto, il settore si sta sviluppando grazie a un notevole sostegno da parte delle autorità politiche unito alla crescente domanda di energia e alla richiesta di diversificazione energetica.

“Mentre la crescita nei mercati consolidati è rallentata negli ultimi anni, la domanda di eolico in Africa e nell’ex Unione Sovietica, così come nei paesi dell’Asia-Pacifico di sviluppo è in crescita, ha dichiarato Feng Zhao, direttore della ricerca di Navigant Research. Le opportunità derivanti in queste regioni contribuiranno a ridurre l’esposizione dei produttori di apparecchiature originali dagli alti e bassi dei mercati eolici tradizionali, rendendo l’energia eolica una delle principali fonti di energia nel contesto globale”.

Questo, nonostante diverse nazioni dell’ex Unione Sovietica siano abbondantemente ricche di combustibili fossili. Tuttavia, molte di loro hanno fissato obiettivi di sviluppo dell’energia rinnovabile per ridurre la loro dipendenza dagli idrocarburi (petrolio, gas e carbone) e la loro esposizione alle fluttuazioni dei mercati energetici globali.

 

[foto da economiaweb]

Nucleare, un “nein” che costa 32 miliardi

Immagino che la notizia abbia rovinato i festeggiamenti per il recente record mondiale nella produzione di energia solare.

Nei prossimi anni, infatti, la Germania spenderà circa 32 miliardi di euro per dire addio al nucleare. Una scelta nata all’indomani di Fukushima, ma che rischia di diventare un insostenibile fardello per le casse tedesche. E sì che stiamo parlando del Paese europeo che sta soffrendo la crisi meno di qualsiasi altro.

Tuttavia, Angela Merkel sembra decisa a proseguire su questa strada, al punto da aver riesumato i piani di Verdi e Socialdemocratici rendendo le tempistiche ancora più strette.

L’ultima delle centrali atomiche tedesche verrà infatti spenta, in base alla scelta della Merkel, già nel 2022.

Intanto, da circa un anno, in Germania la percentuale di energia prodotta dalle fonti rinnovabili ha raggiunto quella prodotta dalle centrali atomiche, più o meno il 30% del totale.

Il che, per il popolo tedesco, è certamente una buona notizia dal punto di vista ambientale ma molto meno da quello economico. Perché tanto più si procede con lo spegnimento dei reattori e la costruzione di nuovi impianti rinnovabili (soprattutto eolici), tanto più aumentano i costi futuri dell’energia. Gli ultimi calcoli, appena resi noti, parlano di una necessità di una spesa di almeno 20 miliardi per costruire nuove linee per il trasporto di energia elettrica, più 12 per la costruzione degli stessi impianti eolici e fotovoltaici.
Senza contare che il Paese dovrà anche ricorrere a nuove centrali a gas, pena aumentare la propria dipendenza energetica dalla Russia.

Quello che resta da vedere, è come i tedeschi accetteranno di sostenere tutte queste spese quando da teoriche diventeranno pratiche.

 

[foto da dirittodicritica.com]

 

Gas: dall’emergenza alle soluzioni

Il sito de “Il Sole 24 Ore” di oggi ospita un interessante articolo firmato da Gian Maria Gros-Pietro intitolato “Politica energetica in cerca d’autore.

Partendo dall’attuale emergenza gas, Gros-Pietro sostiene che è proprio in tali situazioni che si è portati a sviluppare nuove soluzioni, i cui frutti si vedono poi negli anni successivi.

E prende come esempio gli Stati Uniti, che all’inizio degli anni 2000 fecero fronte alla mancanza di gas investendo nello shale-gas ottenuto frantumando in profondità con pressione e temperatura rocce altrimenti non coltivabili.

Una politica che oggi rende gli U.S.A. un Paese esportatore netto di gas sul mercato mondiale.

Ma torniamo all’emergenza di casa nostra, che richiede di percorrere ben altre strade.

Al di là del costo degli investimenti, peraltro notevole, la soluzione shale-gas non è percorribile in Italia, semplicemente perché non ce n’è (al contrario, ad esempio, di Paesi come Polonia, Francia e Norvegia che ne sono ricche).

La “via italiana al gas” passa invece per due direttrici ben distinte e delineate.

La prima consiste nello sbloccare gli oltre 400mila metri cubi di gas che sono attualmente indisponibili poiché sottoposti a una moratoria sulle nuove perforazioni offshore.

La seconda riguarda invece gli investimenti nei rigassificatori, ossia le strutture che ricevono il gas liquido trasportato dalle navi-metaniere e lo ritrasformano in gas immettendolo nella rete nazionale.

Una soluzione che si prospetta molto favorevole, sia perché ci svincolerebbe dalle forniture provenienti da Russia e Algeria sia perché aprirebbe nuovi punti di arrivo del gas, con tutto l’indotto che ne conseguirebbe. Anche perché, come non manca di sottolineare Gros-Pietro, la posizione strategica dell’Italia ne farebbe davvero un partner ideale.

[foto da beenergia.it]

La Russia nuovo leader nell’export nucleare

Non solo petrolio e gas. Da qualche tempo la Russia ha deciso di puntare anche sul nucleare, esportandolo. Mosca, infatti, realizzerà nei prossimi 10-15 anni 60 reattori in Cina, India, Vietnam e America Latina, avviandosi, così, a stabilire una vera e propria leadership nel business delle centrali. L’ultimo accordo in ordine di tempo è stato siglato con il Vietnam: la Russia si impegnerà a costruire il primo impianto elettronucleare del Paese. Nei mesi scorsi aveva già stretto patti di intesa con Venezuela e Cina. Lo sguardo è rivolto anche agli Stati Uniti: dopo la revoca dell’emendamento anti-dumping il 3,5 per cento dell’uranio a basso arricchimento russo viene fornito agli Usa. Quali sono i segreti del successo delle centrali sovietiche? Innanzitutto i costi, che le rendono più competitive rispetto a quelle dei paesi occidentali e quindi maggiormente appetibili per le economie degli Stati emergenti. È indubbio che Mosca si avvia a stabilire un’influenza notevole, data la continua necessità di combustibile nucleare da parte dei paesi fruitori. Una politica che si è rivelata vincente: già da un paio d’anni i numeri stanno dando ragione alla Russia. Sergej Kirienko, capo della Rosatom, Agenzia di Stato per l’energia nucleare, ha parlato in un’intervista ad Avvenire di una crescita degli introiti per il 2009 del 37 per cento, per un totale di 518 miliardi di rubli (circa 13 miliardi di euro). Ma non finisce qui: “ Oggi siamo il maggior fornitore di uranio a basso arricchimento al mondo: attualmente copriamo più del 17 per cento del mercato mondiale – ha affermato Kirienko”. L’espansione della Russia sul mercato estero è significativa per alcuni motivi: innanzitutto testimonia il ruolo strategico sempre più rilevante del nucleare, sia per un Paese che dispone già in abbondanza di gas e petrolio, sia per i paesi emergenti, che hanno intuito i vantaggi di questa fonte energetica. Il fatto, poi, che il Paese, pur essendo erede del disastro di Chernobyl (allora l’Ucraina faceva parte dell’Urss), abbia attirato tanti clienti stranieri, non è trascurabile: “Il superamento di Chernobyl dipende dalle azioni pratiche che sono state compiute. Oggi non è più possibile costruire centrali nucleari come esistevano prima di Chernobyl. È cambiato l’approccio stesso ai problemi della sicurezza ed esistono tutt’altre tecnologie – ha concluso il presidente della Rosatom”.